“Albino e Plautilla”, intermezzo buffo di Leonardo Vinci
Massimo Finelli, attore
Pulcinella, burattino di Bruno Leone
Filippo Morace, basso
Gaia Petrone, mezzosoprano
Talenti Vulcanici
Stefano Demicheli, direttore
Drammaturgia e Regia di Angela Di Maso
Costumi, Giusi Giustino
Disegno luci, Angela Di Maso
Tecnico luci e fonica, Francesco D’Antuono
Consulenza musicologica Paologiovanni Maione
Leonardo Vinci e Pulcinella: quando la cultura classica diventa popolare di Angela Di Maso
Chi sono Albino e Plautilla?
Cos’è un intermezzo buffo?
Cosa si intende per ‘scuola musicale napoletana’?
E soprattutto chi è Leonardo Vinci, tra i massimi esponenti della succitata scuola?
È proprio da questi interrogativi e dall’analisi della partitura originale che è nata e si e sviluppata la drammaturgia intesa non come severa e accademica storia della musica, ma spettacolare rappresentazione teatrale in cui il genere serio s’incarna nel personaggio di Leonardo Vinci stesso – autore delle musiche dell’intermezzo buffo Albino e Plautilla – che attraverso il racconto della sua misteriosa vita, e morte, condurrà per mano lo spettatore tra i fitti e segreti righi pentagrammati di pagine di composizioni genialmente composte, altre commissionate e molte sognate.
Ma all’esecuzione di un’operetta buffa sarebbe stato banale interporre uno spettacolo serio, come era consuetudine farsi nell’opera settecentesca.
Albino e Plautilla è difatti una buffoneria musicale posta tra gli atti della tragedia Silla Dittatore, dello stesso Vinci.
Intermezzo buffo in uno spettacolo buffo!
Ecco allora la stramba idea di rendere co-protagonista insieme a Leonardo Vinci, interpretato dall’attore Massimo Finelli – che racconta quali gli usi e costumi della musica nel Settecento, con passaggio obbligato al fenomeno dei castrati fino al suo monumento funebre – un altro personaggio, non umano però, ma colmo di umanità.
Un’umanità genuina, spontanea, verace, allegra e malinconica, mefistofelica e al tempo stesso profusa di una angelicata fanciullezza.
Un’umanità più popolare espressa da una maschera presa in prestito dalla grande commedia dell’arte: Pulcinella, qui burattino, i cui movimenti del corpo di legno e la particolare voce sono affidati alla raffinata maestria del guarattellaio Bruno Leone.
Il Pulcinella delle guarattelle non è più servo e contadino, ma un archetipo di vitalità, un anti-eroe ribelle e irriverente, un protagonista assoluto che affronta, smitizza e deride chiunque in questo grottesco mondo abbia ancora l’ardire di prendersi troppo sul serio.
Proprio Pulcinella infatti disturberà il racconto del compositore calabrese adottato dalla città di Napoli, schernendolo e ridimensionando le sue grandi gesta paragonandolo, in surreale maniera anacronistica, a quei miti partenopei, come Mario Merola e Maradona, facente parte di un substrato culturale più nazional-popolare che elitario, per creare una dissonante spaccatura tra generi indubbiamente diversi ma che in realtà sono accomunati da un’unica radice verso chi ha donato qualcosa della propria Arte che, dalla particolare città di Napoli, è divenuta memoria storica e universale.
Chi non conosce infatti il re della sceneggiata Mario Merola e il piede d’oro di Maradona? E chi non ha mai sentito pronunciare il nome di Pulcinella?
Per Leonardo Vinci il caso è opposto.
Un compositore, per chi non è del mestiere, ignoto, ma che proprio grazie al lavoro di costante ricerca della Fondazione Pietà de’Turchini, centro di musica antica tra i più prestigiosi di Europa, apertasi anche al Teatro, ora noto.
Figurarsi allora se la sua severa figura è messa in comunione coi miti succitati!
Uno scandalo!
Anche Vinci diventerà da tutti indimenticato, perché un esponente della cultura classica che diventa popolare non nel senso di trash, ma di conosciuto, ricordato, stimato e amato.
Il teatro e la musica vivono così un felice sposalizio in cui si annullano le distinzioni di generi grazie alla purezza del fare Artistico che diventa conoscenza e arricchimento intellettuale e sentimentale.
Note di sala a cura di Paologiovanni Maione
«Io non voglio Picche | io non voglio Pacche»:
intermezzi “immorali” per scene continenti
L’antica stanza del San Bartolomeo di Napoli, nel corso della sua centenaria attività, assiste a epocali mutamenti della scena assumendo fogge che, di volta in volta, lo rendono più alla moda e ospitando repertori aggiornati e adeguati al gusto dei vigili ed esigenti spettatori. Le metamorfosi segnate dall’irrefrenabile macchina performativa, ricca di intuizioni e sperimentale per vocazione, connota l’aggiornato teatro sensibile anche ad accogliere “manufatti” in linea con i desiderata di coloro che si succedevano nella carica vicereale.
Le “stagioni” dei volenterosi emissari della corona spagnola del regno meridionale sono all’insegna di strategie propagandistiche e politiche assai complesse dove le storie delle maestranze e quelle dei “committenti” si intrecciano fittamente dando vita a un fenomeno difficilmente “leggibile” per la sua ingovernabilità ma ampiamente stimolante per avventure e scorribande in territori “perigliosi” e “ingannevoli”.
La partecipazione della sala partenopea all’evoluzione della drammaturgia tardo seicentesca è un dato ormai acquisito come quello dell’ascesa di un’industria “autoctona” che di lì a poco avrebbe garantito un marchio di fabbrica indelebile e vagheggiato in ambito internazionale: sistema che andrà progressivamente attestandosi all’aurora del nuovo secolo, tanto ricco di successi e “primati”.
I primi decenni del Settecento, sotto l’egida dell’aquila bicipite, si rivelano particolarmente fecondi per le arti della scena con la moltiplicazione di generi e luoghi. Il Teatro di San Bartolomeo, ormai rotto a qualsiasi esperienza, dopo circa sette lustri del nuovo secolo, quello dei “lumi”, si appresta a ricoprire il ruolo di sala regia sottoponendosi nuovamente a un restyling che probabilmente lo rendeva ancor più “artificioso” strutturalmente.
Carlo di Borbone al suo insediamento sul trono del regno apporterà una serie di novità nella vita del vetusto edificio e segnerà il tramonto, ma solo apparente, dell’intermezzo in territorio napoletano a vantaggio degli spettacoli coreutici che si situano in quegli “spazi” un tempo occupati dalle maestranze buffe che già avevano subito un’estradizione dalla loro antica “abitazione” quando condividevano la scena e la propria vita con gli eroi dei drammi. Il giovane monarca introdusse praticamente da subito i balli nel palinsesto delle serate teatrali ma senza destabilizzare l’economia dello spettacolo “tradizionale” scalzando repentinamente la coppia dei buffi.
La complessità di lettura di alcuni fenomeni, troppo spesso soggetti a spiegazioni parziali, porta a univoche, e superficiali, osservazioni; la convivenza dei generi trapela inoltre anche dalla presenza dei balli previsti nella stagione teatrale 1735-36 e da un articolato documento, ricco di suggerimenti, inviato dalla Segreteria di Stato, attraverso il marchese d’Arienzo, all’impresario Angelo Carasale nell’ottobre del ’35 in cui si cercava, tra l’altro, di alleggerire l’articolato organigramma spettacolare destinato alle recite “reali”: «El hacer el Prologo poco puede ser aplaudido, amas que deviendose hacer los intermedios, y bailes se dilataria la Opera, y saldria mas enfadosa».
Tra le tante motivazioni che spingono il figliolo di Elisabetta Farnese a prediligere il mondo coreutico ve n’è una alquanto eccentrica riportata nel manoscritto anonimo dell’Istoria di Napoli custodita presso la Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III in cui si legge, nelle «applicazioni cotidiane del Re», a riguardo de «l’indole e i costumi […] santissimi»:
basta dire che, considerando egli che nel Teatro di San Bartolomeo si rappresentavano dalle parti buffe gl’intermezzi con qualche oscenità di atteggiamento, ordinò che queste si abolissero ed in loro vece introdusse gl’intermezzi de’ balli, facendo venire i migliori ballerini d’Europa.
Le esemplari e castigatissime maestranze dedite al “culto” di Tersicore dunque hanno il sopravvento sulle immorali e sconvenienti compagnie buffe, ricettacolo di dissoluti costumi traghettati sulle scene a maggior sdegno del mondo. Le purgate platee partenopee sgomente subivano l’oltraggiosa esibizione delle temerarie micro-troupe dedite a ripugnanti nequizie alle quali non valse la condivisione con le esemplari e continenti frotte di danzatori a ritornare sui propri passi e percorrere la strada della beatitudine performativa.
Le piissime danzatrici, le cui gesta “lusinghiere” invadono gli uffici preposti alla morale per vituperosa condotta che le rendeva periclitanti tanto quanto le colleghe canterine, assai strattonate per reali o presunti scandali, sono, agli occhi di Carlo, secondo l’anonimo redattore, un modello di sanità e santità. Per non parlare del mondo maschile dedito alla pratica buffa che è sempre in bilico tra arte e affari loschi, i cui tratti sono di sovente accomunati ai peggiori malfattori o birbi, senza escludere la partecipazione talvolta di costoro all’affollato mondo dei cicisbei, è una categoria dalle mille declinazioni e dalle molteplici inclinazioni.
I danzatori invece assumono un ruolo ammirevole agli occhi delle catechizzanti folle bisognose di irreprensibili figure da emulare e seguire, ed effettivamente gli avventori delle sale teatrali adeguano la loro condotta con fin troppa acribia alle dissipate attività dei “luciferini” virtuosi. Probabilmente il redattore rapito e ispirato da una smodata voglia di celebrare il sovrano con accenti iperbolici finisce per incappare in descrizioni sospette; il mondo della scena tutto emana un affascinante odore sulfureo e le tavole teatrali amplificano, nell’ostensione dei corpi, una fascinazione sensuale irrefrenabile se le cronache e i documenti del tempo narrano episodi straordinariamente sconvenienti dove la continenza è un’eccezione in un contesto segnato dal turbamento e dai voraci “appetiti” erotici.
Ballerine, attrici, canterine, musici, cantanti, commedianti entrano a far parte di una regione franca dove trova ristoro un’umanità bisognosa di “illusione” e che solo di tanto in tanto si ridesta in quei luoghi di rigore e pena, ma ancora una volta si tratta di eccezioni determinate da corti circuiti in-volontari. Oggetto di attenzioni giuridiche sarà ad esempio Laura Monti, tra le maggiori protagoniste della stagione degli intermezzi napoletani – sua è la Serpina pergolesiana – in bilico tra arte e meretricio agli occhi di un infame mondo al quale risponde con dettagliate relazioni sulla sua rettitudine avallata e firmata dagli abitanti del rione in cui dimora, e amplificata dall’osservanza dei precetti religiosi. Inoltre tra i due mondi non c’è una netta linea di demarcazione per cui le maestranze passano da una competenza all’altra con una disinvoltura disarmante che è pratica eloquente di professionisti il cui eclettismo tecnico travalica talvolta qualsiasi immaginazione.
Intanto in tempi di grande fermento per le sorti dei “buffi” all’interno dell’opera “maggiore” si accumulano “repertori” variegati che percorrono strade divergenti tra sollecita volontà conservatrice e tenace progettualità riformistica. Nella bella Partenope le sale – ormai nel primo decennio apre le proprie porte al teatro in musica, nelle sue declinazioni “serie” e “comiche”, senza tralasciare la pratica dell’Arte, l’antichissimo Teatro dei Fiorentini – esibiscono prodotti diversificati dando contezza di quella riflessione in atto sulle sorti della scena “operistica”. Lento, è in alcuni casi, il commiato dei “buffi” dal mondo “eroico”, con malinconico sgomento compaiono come fuochi fatui in un’azione che non li contempla più e che li relega in quei finali d’atto confezionati apposta per loro.
Recinti “periferici” di marca talvolta antiquaria – si veda l’ordito di Livietta e Tracollo di Pergolesi – contengono le sorridenti azioni di paggi, servi, servette, nutrici, militari ormai giubilati, queste “case di riposo” – alle quali fa da contraltare la nascente industria della commedeja pe mmuseca, arditissima e ingovernabile macchina dai mille stili e generi – avranno comunque un proprio riscatto sulle strade del mondo divenendo anche “miccia” per l’epocale querelle des bouffons sulle “pettegole”, “facinorose” e “intellettuali” tavole parigine. Albino, «capitano di milizie», si aggira, nel contenitore del Silla dittatore, con cautela comparendo timidamente nel primo atto in una scena e nel terzo per sei brevi interventi spalmati in tre scene successive trovando riparo e agio nella “zona franca” dei finali d’atto con Plautilla, la cui interferenza nell’azione “primaria” è prevista solo in una striminzita comparsata, in un irrilevante dialogo, con Emilia destinata a giustificare il suo ruolo di «damigella di Emilia».
Nell’autunno del 1723 in occasione del
giorno natalizio di sua maestà cesarea cattolica […], Sua Eminenza il signor viceré [Michael Friedrich Graf von Althann] differì la celebrazione di esso, come altresì li festini per la coronazione della suddetta cesarea cattolica maestà in re di Boemia, per il giorno di domenica [3 ottobre], nel quale la mattina […] passò […] alla R. Cappella, ove assisté alla messa e Te Deum che solennemente vi si cantò […]. Il dopo desinare fu la […] cuccagna [eretta nella piazza del Real palazzo] saccheggiata dal popolo, godendone la vista dal principal balcone del regio Palazzo sotto ricco dossello Sua Eminenza il signor viceré e dagli altri tutte le dame e titolati […], e la sera poi passarono alla gran sala detta de’ Svizzeri, ove ascoltorono l’opera in musica intitolata Silla dittatore, precedendo ad essa il prologo allusivo alla coronazione delle cesaree cattoliche maestà in regnanti di Boemia con due vaghissime vedute, la prima delle quali rappresentava la valle di Hegra [= Flegra] con li giganti abbattuti e l’altra una reggia celeste con la coronazione delle suddette cesaree cattoliche maestà, e nel fine di ciaschedun atto furono compartiti di nuovo altri famosi e copiosi rinfreschi […] onde riuscì il tutto con indicibile magnificenza […].
In questo tripudio festoso sono “invitati” anche i nostri “diseredati” (?) Albino e Plautilla in virtù del loro censo di appartenenti ai “famigli” del «dittator romano», sin dall’avvertenze apposte al libretto si scrive che
Al personaggio di Albino, che dall’Autore del Drama è stato ideato per totalmente Serio, e Competitore dell’istesso Silla nell’amor di Valeria, è stato tolto l’amore, per dargli un Carattere in qualche parte giocoso nelle Scene, che diconsi Buffe, aggiunte nel fine degli Atti, quali sono state abozzate da chi hà l’incumbenza di adattare le Opere a questo Teatro.
Ma chi era questo “adattatore”? In quella stagione teatrale – Pasqua 1723-Carnevale 1724 – compare come accomodatore del Siface (maggio 1723) Pietro Metastasio che firmerà poi l’ultimo titolo della stagione, Didone abandonata, con relativo intermezzo, L’impresario delle Canarie… potrebbe forse trattarsi di un ulteriore “esercizio” scenico di colui che sarà chiamato nel ’30 a ricoprire il ruolo di poeta cesareo? È una suggestione bella che merita ulteriori indagini e riflessioni, e non è questa la sede per simili cose. L’opera il 17 ottobre appare poi nel teatro di S. Bartolomeo, quale, essendosi accomodato con nuovi ordini di palchetti e vagamente dell’intutto dipinto, faceva una nobilissima vista, e vi si portò ad ascoltar l’opera Sua Eminenza il signor viceré, come anche tutte le dame e titolati di questa capitale e gran numero di altri ordini di persone, da’ quali fu universalmente applaudita, sì per la musica come per le vedute di scene.
La compagnia stellare scritturata dagl’impresari del massimo cittadino comprendeva, tra l’altro, i virtuosi Nicola Grimaldi e Marianna Benti Bulgarelli. Tenendo fede a una tradizione performativa in odore di riforma, lo spettacolo musicato da Leonardo Vinci vedeva relegati i buffi, come detto, nelle sezioni estreme degli atti con solo esilissime comparse all’interno dell’azione principale. In tal modo lo “sfratto” dei comici appariva più indolore sebbene irreversibile segnando una frattura tra tipologie e generi, e proprio una coppia “di grido” del genere degli intermezzi, come Gioacchino Corrado (in forze presso la blasonata Cappella Reale di Napoli) e Santa Marchesini, traghetta, in questo caso, una sapienza performativa collaudata nell’inedito percorso.
I “bauli”, ricchi di espedienti teatrali e di efficaci soluzioni comiche, dei commedianti “armonici” trovano così ristoro all’interno di laboriose microdrammaturgie destinate ad avere un successo internazionale capillare grazie alla praticabilità della messinscena, economica e accreditata. Leonardo Vinci scrive in quest’occasione una pagina esemplare dove le avventure di Albino e Plautilla non sono che un pretesto per far prendere “aria” a una “mercanzia” alla ricerca di una collocazione adeguata sebbene su altri fronti la vasta umanità dei “buffi” trovava ospitalità egregia presso il nuovo ordito della commedeja pe mmuseca. Situazioni “memorabili” si succedono in queste tre grandi scene testimoni di una tradizione performativa fatta di contaminazioni e “mestiere”, sono spesso azioni dell’Arte restituite a una “scrittura regolare” destinata alla musicazione.
Travestimenti e danze, lezioni erudite e pratiche ciarlatane, strategie amorose e insinuazioni grossolane si succedono per esili e seriali costruzioni narrative. Lazzi e tirate s’intrecciano a strutture “per musica” dove probabilmente non mancava un’improvvisazione, concertata, destinata a sorprendere quelle platee scaltre e appassionate che richiedevano un professionismo altissimo: la pratica di Albino e Plautilla verte su una tecnica attoriale fondata sulla disciplina e il continuo esercizio.
Plautilla invita alla danza un inabile soldato che avvia la sua esperienza con la giovane donna in una “prudente” e “peccaminosa” scena di vestizione:
PLAUTILLA
Si vorrebbe vestire?
È mia fortuna grande
se in questo pur la posso qui servire.
ALBINO
Plautilla sto in camicia e ho vergogna.
PLAUTILLA
Meco ha già confidenza.
ALBINO
Manco mal ch’ho i calzoni
ma son quelli alla moda coi bottoni,
e mi tengon sì stretto
che non lasciano il sangue circolare.
PLAUTILLA
Vol mettersi il corpetto?
ALBINO
Eh lasci stare
PLAUTILLA
Voglio aver questo onore
che vada di mia mano oggi vestito.
ALBINO
Gran cortesie son queste
sogliono le altre donne
spogliar, costei mi veste.
E poi non si perda mai di vista che per contratto era previsto, come nel caso di Laura Monti “comica eccellentissima”, di «recitare in musica, e fare la parte da servetta […], e […] fare tutti quelli stravestimenti, che respettivamente necessiteranno […], et ogn’altro, così d’huomo, come da donna, e così di scherma, come di ballo, e sonare»… ora, però, non proseguiamo a svelare la trama e la sua costruzione ma lasciamoci affascinare da questo gioco “antico” e rapinoso insidiato da Pulcinella che è il gran motore della scena napoletana come attore, spettatore e “critico” («io non sono che un critico», A. Boito).
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