

Antonio Manna: il basso napolitano
Nicola Ciancio, basso
Talenti Vulcanici
Stefano Demicheli, cembalo e direzione
Consulenza musicologica Paologiovanni Maione
Trascrizioni a cura di Enrico Gramigna
Programma:
Alessandro Scarlatti Quante i boschi han piante
Nicola Fago Contro i colpi di fortuna
Nicola Antonio Porpora Idre arpie, draghi e leoni da La Iole
Angelo Ragazzi Sonata a 4 n. 1
Alessandro Scarlatti Nel mar che bagna al bel Sebeto
Giovanni Bononcini Quanto abbraccia il mar
Georg Friedrich Haendel Precipitoso il mar che freme da Aci, Galateo e Polifemo
Nicola Antonio Porpora Concerto per violoncello ed archi in sol maggiore
Marc’Antonio Ziani Colma d’affanni amari da Il sepolcro nell’orto
Marc’Antonio Ziani Miei fidi armatevi da Il faraone sommerso
Giovanni Bononcini Per molti lustri da Euleo festeggiante
Note di sala a cura di Paologiovanni Maione
Nell’immaginario belcantistico settecentesco la corda del basso ha un ruolo pressoché inesistente: le “ingombranti” primedonne, dalle estensioni più disparate, e gli “innaturali” musici, dalle prodigiose ugole, ingombrano la scena e affollano la “memoria” di una storiografia tesa a sublimare sia le portentose carriere delle capricciose dive della scena che quella dei virtuosi “rosignoli” destinati a inebriare attonite platee. In un mondo affollato di storie e pettegolezzi ruotanti intorno a questo star system vagheggiato e continuamente sotto osservazione, in maniera defilata compivano i loro “prodigi” categorie vocali poco “illuminate” da interessi mercenari e da platee plaudenti. Tra il tardo Seicento e il primo Settecento, nella città di Napoli, s’impongono alcuni tra i maggiori bassi del panorama europeo, tutti appartenenti alla sceltissima compagine di palazzo e vagheggiati dalle scene cittadine pubbliche e private, sacre e profane. Tra palcoscenici privati e cantorie sacre si svolgeva la carriera delle “ugole” defilate, tenute spesso lontane dalle sale pubbliche per la loro appartenenza agl’ordini sacerdotali che vietavano la loro esposizione sulle sulfuree tavole, ritenute disdicevoli per coloro che indossavano l’abito talare. Eppure non mancavano occasioni “reservate” per smettere gli austeri indumenti ed esibire variegati costumi che li conducevano in eroici e mitologici empirei dove i rigori della loro quotidianità evaporava al cospetto di “favole” architettate in luminescenti e lussureggianti contesti. Certo che i supplizzi estetici a cui erano sottoposti nella quotidianità trovavano il proprio riscatto nelle piissime pompe delle fantasmagoriche liturgie dove apparati e arredi superavano di gran lunga i fasti della scena. Ma tra i bassi “blasonati” dell’esclusiva cappella reale si annidavano anche alcuni soggetti che senza alcun timore offrivano il loro sapere vocale all’improbabile esercizio comico: dai palcoscenici delle stelle alle inopportune tavole della commedeja il passo… è breve! Gioacchino Corrado, virtuoso della compagine reale e senza vincoli religiosi, non disdegna di contaminarsi con i linguaggi “rischiosissimi” del teatro musicale buffo, sarà lui a dar vita e voce a quel Vespone che tanto risalto avrà sulle scene europee, insieme con la “luciferina” Laura Monti terrà a battesimo La serva padrona del modernissimo Pergolesi. Tra i bassi di spicco si ricordano soprattutto Bonifacio Pecorone e Antonio Manna, il primo resta nella trama della storia grazie a un’esemplare autobiografia destinata a raccogliere notizie e vicende di una stagione culturale e musicale forse irripetibile – che oggigiorno malamente scimmiottiamo e celebriamo – fatta di una creatività irrefrenabile – la “creatività” forse ancora persiste ma spesso non riconosciuta, ma è giusto così saranno i posteri a deciderlo – e di meccanismi complessi e spesso ancora tutti da scoprire. Pecorone ci rende spettatori di cerimoniali sociali inediti e attori di una Napoli tutta proiettata in una scrittura di sé esemplare, dalla pratica musicale aristocratica all’insegna di una produzione raffinata e sperimentale – memorabile sono le pagine dedicate alle accademie promosse dal suo protettore il principe di Bisignano incentrate sulle cantate in lingua napoletana – e di un mercato musicale sfaccettato e ricco di insidie – la sua collocazione all’interno dei maggiori istituti religiosi (era in forze presso la chiesa del Gesù Nuovo) e di quello palatino traccia un adamantino paesaggio lavorativo del tempo fatto di alleanze e patronati – alle vicende storiche di cui è protagonista insieme a uno stuolo di blasonati musicisti del tempo, da Alessandro Scarlatti a Domenico Sarro. Antonio Manna è ricordato, invece, per l’incontro con Georg Friedrich Händel quando, nel corso del suo lungo soggiorno italiano, approdò a Napoli e produsse, per quella abbagliante mecenate delle arti Aurora Sanseverino, la serenata Aci, Galatea e Polifemo. In questa memorabile pagina, concepita per l’agguerrita promotrice della musica (la Sanseverino in occasione delle nozze del primogenito , nel 1711, organizzò un vero e proprio festival musicale nel suo palazzo di Piedimonte della durata di una settimana con rappresentazioni operistiche quotidiane firmate dai maggiori compositori del tempo come Porpora e Fago, e con la ripresa della partitura händeliana), Manna fu chiamato a sostenere il ruolo di Polifemo che nel corso dell’azione dà ampio sfoggio del suo ragguardevole registro vocale, che raggiunge iperboliche note gravi, e del suo bagaglio tecnico. Il fenomeno canoro sottolineato dalle bibliografie del musicista tedesco, pongono in primo piano l’ardita scrittura destinata a questo cantante soffermandosi sull’anomalia “belcantistica” di questo elemento dotato di un’estensione ragguardevole, purtroppo va smentita l’unicità di Manna al cospetto di una letteratura per i bassi “napoletani” che prevede in più casi un cimento assai ardito. Ancora una volta la storia si sofferma sull’eccezionalità, legata a fattori di varia natura, in questo caso la fortuna di Manna di aver partecipato a costruire il ruolo di Polifemo per Händel, senza interrogarsi sulla reale entità del problema scrutando con maggior attenzione un sistema che alimenterebbe la possibile ipotesi di una scuola di canto tesa a coltivare una corda spesso poco valorizzata nel nostro immaginario “barocco” – se si escludono le iperboliche scorribande monteverdiane legate, ad esempio, alle vertiginose note reclamate per il personaggio di Caronte nell’Orfeo – e soprattutto di una caratteristica che contraddistingueva una genia di voci “locali”. Si può dunque parlare di “basso napoletano”? Probabilmente sì, ma gli studi sono ancora in una fase aurorale per poter asserire con certezza la presenza di questa categoria. Certamente Antonio Manna doveva eccellere non poco agli occhi di quel mondo se fu conteso dalla corte viennese presso la quale svolse un ragguardevole soggiorno durato un lustro (dal 1700 al 1705) con grande soddisfazione della famiglia reale e degli eletti ascoltatori che ebbero la possibilità di ascoltarlo nel corso delle funzioni sacre e durante le esecuzioni degli oratori allestiti a palazzo. L“abate Camerino”, così soprannominato, nacque a Matera nel 1665 ed entrò a far parte dell’ensemble della Cappella Reale nel 1697 dove rimase in carica fino alla sua morte avvenuta nel 1728 eccetto nel quinquennio in cui fu a Vienna in forze presso la Hofkapelle. Nel corso della sua vita si registra qualche presenza anche a Roma dove si esibì in alcuni oratori, nel 1705 cantò per il cardinale Benedetto Pamphili durante un’accademia e nel Natale dello stesso anno si esibì in una cantata di Alessandro Scarlatti presso il Palazzo Apostolico. Ancora fumoso è il soggiorno presso la corte imperiale viennese e solo lentamente si sta ricostruendo il suo impegno durante le esecuzioni degli oratori a palazzo grazie a una documentazione che, con molta ritrosia, fornisce dati sulla sua attività d’oltralpe. Sicuramente comparve ne Il sepolcro nell’orto di Marc’Antonio Ziani nel ruolo di Nicodemo e come Nearco nell’Euleo festeggiante di Giovanni Bononcini, da queste due partiture provengono rispettivamente le arie «Colma d’affanni amari» e «Quanto abbraccia il mar»; nel brano di Ziani in maniera esemplare si enfatizza il moto dell’affanno attraverso un insolito artificio strumentale che amplifica il “gesto” vocale. Le pagine che tratteggiano l’esperienza vocale di Manna sono specchio fedele di un virtuosismo “pirotecnico” ed espressivo che ben si inserisce in quel panorama melodrammatico primo settecentesco dove la simbiosi tra interprete e compositore era, probabilmente, assoluta. Molti brani seguono percorsi strutturali appartenenti a un “baule” esperienziale fortemente connotato e legato alle conoscenze del “proprietario”, l’autore fa propri questi “schemi” agghindandoli con una propria cifra di riconoscibilità che non destabilizza, però, l’artefice che si riconosce in quella ulteriore declinazione dei suoi saperi, Un percorso articolato si mostra attraverso quegli autori che hanno reso memorabile la nostra storia musicale che probabilmente fu tracciata da uno stuolo di esecutori dalla forte coscienza musicale e dalla tenace volontà “performativa”, la linea del canto è apportatrice di “segni” restituiti dalla profonda conoscenza della cinesica, dove il suono predispone al gesto e alla postura, alla mimica e al movimento. Alessandro Scarlatti nelle “stazioni” della sua cantata Nel mar che bagna il bel Sebeto – raro esempio di cantata per basso – offre un campionario esemplare di occorrenze cinetiche-espressive destinate al cantante alfine di “ri-creare” attraverso il codice musicale un teatro fortemente evocato tutto da far rivivere, e da ri-scrivere, nel momento performativo quando la magia dell’interprete e tale da far vedere ciò che non si vede. Molto invece dovettero vedere a Palazzo Stigliano i convitati alla rappresentazione dell’Erminia di Alessandro Scarlatti nel 1723 quando a vestire i panni dell’eroina tassiana vi era il giovanissimo Farinelli con Antonio Manna nel ruolo di Pastore, in occasione delle nozze di Ferdinando Colonna con Maria Luisa Caracciolo la vaghissima serenata, probabilmente parto poetico di un giovane Metastasio, coronò i festeggiamenti e ritorna ad echeggiare questa sera una inedita aria superstite della seconda parte – si rammenta che a salvarsi nei secoli è stata solo la prima parte –, l’aria «Quante i boschi han piante» è un omaggio del compositore palermitano alla vocalità di Manna e dunque non sorprende l’utilizzo dei lunghi melismi presenti nella movimentata pagina. Così scriveva il redattore della «Gazzetta» sull’evento musicale:
[si eseguì] una eccellente serenata intitolata Erminia, a quattro voci, posta in note dal non mai abbastanza lodato cavaliere Alessandro Scarlatti, che veramente può dirsi che quanto più cresce nell’età tanto maggiormente acquista nuove sublimi idee nelle sue composizioni, e fu cantata da’ primi quattro virtuosi che si ritrovano in questa città, cioè Carlo Broschi (detto Fariniello) soprano, che con molt’applauso rappresentò la parte d’Erminia, come altresì Andrea Pacini contralto, Tancredi, Annibale Pio Fabri tenore, Polidoro e D. Antonio Manna basso, che rappresentava la parte di Pastore (15 giugno 1723).
Nicola Fago (Il faraone sommerso, nell’aria «Miei fidi armatevi» c’è un ventaglio di espedienti tecnici mozzafiato per “dipingere” la veemenza guerriera, tra irose fioriture contraddistinte da salti, passaggi a nervose note ribbattute, madrigalismi si consuma uno spossante e irato gioco “militare”) e Nicola Porpora (La Iole) contribuiscono con le loro creazioni a delineare ulteriormente la fisionomia di questo grande interprete che seppe coniugare arte e diplomazia in modo indiscutibile:
D. Antonio Manna, cappellano cesareo e virtuoso di sua maestà cesarea cattolica in questa R. Cappella, per l’antica servitù di 25 anni all’augustissima Casa d’Austria, avendo servito le gloriose memorie di Leopoldo e Giuseppe nella loro imperial cappella per lo spazio di 14 anni, in ossequio di sua fedeltà per la gravidanza dell’augustissima imperadrice regnante ha fatto illuminare per tre sere continue la sua abitazione sita a S. Teresa a Chiaia, con strepitose sinfonie; nell’ultima sera di domenica poi cantò e fece cantare una serenata dalle più scelte voci di questa città, fra’ quali vi fu il rinomato marchese Matteucci con tutti l’instrumenti al numero di 60 tutta allusiva all’aspettato felicissimo parto (19 ottobre 1723).
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